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  • Privacy, il divieto di vendita dei dati nella legge Californiana, CCPA.

    Vediamo da vicino una innovativa legge Privacy la cui idea potrebbe arrivare a breve nel nostro ordinamento anche se con gli opportuni adattamenti. Il California Consumer Privacy Act (CCPA) offre ai consumatori il diritto di rinunciare e impedire alle aziende di vendere le proprie informazioni personali. La disposizione di opt-out (scelta di non vendere) della legge californiana CCPA è in vigore dallo scorso anno Quali sono i diritti riconosciuti nel CCPA: Il diritto di conoscere quali informazioni personali sono raccolte e come vengono utilizzate e condivise; Il diritto di cancellare le informazioni personali raccolte dalle aziende; Il diritto di rinunciare alla vendita delle proprie informazioni personali; e Il diritto alla non discriminazione per l'esercizio dei propri diritti CCPA, (su tale concetto torneremo più avanti) Tali misure sono state approvate dal legislatore californiano a seguito dell'entrata in vigore in Europa del GDPR. Sul diritto di rinuncia nella legge Californiana. Il diritto di rinuncia - opt out - nel California Consumer Privacy Act offre ai consumatori la possibilità di impedire che l'azienda venda i dati raccolti a terze parti, con la possibilità però che tali dati siano utilizzati all'interno delle unità aziendali. Scopo del CCPA, così come quello del GDPR Europeo, è quello di lasciare il controllo dei dati agli utenti. Come funziona il diritto di scelta dell'utente? A tutti gli utenti californiani dai 16 anni in sù, in quanto per i giovani di età inferiore vige un altra normativa che coinvolge i genitori. La scelta dell'utente consisterà nel "negare" il consenso alla vendita dei dati o concederlo, magari perché la mancata concessione comporta delle limitazioni di uso o un differente costo per il servizio richiesto via web. É necessario quindi un apposito banner nei siti web come giá operante in Italia per la raccolta delle informazioni, dal quale quindi l'utente potrà decidere se accettare e quindi concedere la possibilità (opt in) o negare (opt out) la vendita dei propri dati. Ma cosa comporta il diniego dell'utente per le aziende, ed a quali si applica? In primo luogo, il CCPA si applica solo le aziende che hanno più di 25 milioni di dollari di fatturato, e possiedono informazioni personali su 50.000 persone o famiglie all'anno o ricevono più del 50% delle loro entrate dalla vendita di informazioni personali. Se un'azienda non rientra in questi parametri, tecnicamente non ha bisogno di offrire il diritto di opt-out, ma tali limiti non sono così elevati come si pensa, di fatto per le imprese operative on line sono una somma minima, tantoppiu' che non è chiaro se tale soglia sia applicabile solo alle imprese titolari del sito web o alle imprese che forniscono il servizio. In secondo luogo, le aziende devono individuare quali informazioni sono raccolte e quali saranno vendute/cedute a terzi. Il concetto di vendita poi é molto più ampio del concetto italiano di vendita previsto dal codice civile. La vendita di informazioni personali per la legge californiana è ampiamente definita dalla legge e include la vendita, il noleggio, il rilascio, la divulgazione, la diffusione, la messa a disposizione, il trasferimento o la comunicazione in altro modo oralmente, per iscritto, o per via elettronica o altri mezzi, delle informazioni personali di un consumatore da parte dell'azienda a un'altra azienda o una terza parte per un controvalore monetario o altra utilità. In altre parole, la maggior parte dei trasferimenti di informazioni personali da impresa a impresa rientreranno nella definizione di vendita che nel sistema italiano definiremo più semplicemente con il termine: "qualunque messa a disposizione". La definizione include semplicemente la messa a disposizione/divulgazione a terzi, e non è necessario il riferimento ad un prezzo per considerarla vendita. Ma Perché la definizione di vendita è così ampia? Lo scopo é prevenire l'elusione della legge privacy da parte delle imprese. Tale fattispecie non sussiste ove il trasferimento é relativo ad un servizio specifico che preveda tale cessione o relative a quello scopo, il tutto con prova scritta per l'esenzione. Quali informazioni potrebbero non essere trasferite dopo un opt-out? Le informazioni personali sono ampiamente definite dalla legge, tra le altre citiamo a titolo esemplificativo il nome, indirizzo IP, indirizzo e-mail, numeri di previdenza sociale, informazioni commerciali quali record di proprietà personali, informazioni biometriche, cronologia delle ricerche, dati di geolocalizzazione, informazioni audio o visive, informazioni relative all'occupazione, informazioni sull'istruzione e deduzioni tratto da una qualsiasi delle informazioni identificate. Protezione contro la disattivazione del servizio e prezzo da incentivazione. Le imprese non possono discriminare i consumatori che esercitano i loro diritti, anche se possono offrire un prezzo diverso o proporre incentivi per ottenere il consenso. E' una clausola che consente attività di incentivazione alla concessione del consenso e che può prevedere dei veri e propri incentivi. Bisogna tener presente infatti che un diniego durerà 12 mesi prima che l'azienda possa richiedere nuovamente il consenso. Una legge innovativa con spunti che potrebbero arrivare anche nel nostro ordinamento, opportunatamente adattati. Torna alla home a cura di Aldo Lucarelli. #CCPA #privacy #Gdpr #optout California Legislative Information

  • La casalinga è una lavoratrice non dipendente ai fini della tutele familiari?

    La questione oggi dibattuta ma di particolare interesse, rimessa al Consiglio di Stato, è volta a chiarire: a) Se la casalinga possa avere lo status di "non lavoratrice dipendente" posizione che comporta diritto a trattamenti economici di maternità a carico dell’Inps o di altro ente previdenziale; b) in caso di risposta affermativa, se il diritto del padre a fruire dei riposi giornalieri previsti dall’art. 40, d.lgs. n. 151 del 2011 abbia portata generale, ovvero sia subordinata alla prova che la madre casalinga, considerata alla stregua della lavoratrice non dipendente, sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero affetta da “infermità”, seppure temporanee e/o non gravi; c) quale sia l’esatta accezione da attribuire alla nozione di alternatività tra i due genitori in caso di parto gemellare, ove la madre sia casalinga. Tali questioni sono all'esame del Consiglio di Stato, che dovrà fornire una risposta. (CdS 2649/22) Infatti i diritti al riposo dei genitori a tutela del bambino, per la prima volta riconosciuti alle lavoratrici madri nel 1971 non furono inizialmente accordati al padre lavoratore al quale invece solo nel 1977 furono riconosciuti diritti tramite una legge intesa a realizzare la parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro e si incominciò a riconoscere il diritto di assentarsi dal lavoro del padre in alternativa alla madre lavoratrice ovvero quando i figli erano affidati solo a lui. Da tali disposizioni di legge degli anni 70 si è sviluppata una legislazione del diritto nel senso della valorizzazione del prevalente interesse del bambino, riconosciuto autonomo titolare di interessi da salvaguardare, e del conseguente riconoscimento di paritetici diritti-doveri di entrambi i coniugi e della loro reciproca integrazione nella cura dello sviluppo psico-fisico del figlio. E’ stato così progressivamente riconosciuto in via generale che (anche) il padre è idoneo - e quindi tenuto - a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore. In tale prospettiva va ricordata la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 14 gennaio 1987, che ha esteso il principio sulla parità di trattamento fra uomini e donne, previsto dall’art. 7, l. n. 903 del 1977, ritenendo che il diritto ai riposi giornalieri retribuiti, previsti per la lavoratrice dall’art. 10, l. n. 1204 del 1971, dovesse essere riconosciuto al padre lavoratore nel caso (che era quello esaminato dalla Corte) in cui l’assistenza della madre al minore fosse diventata impossibile per decesso o grave infermità. E’ stato così chiarito che la natura e la finalità dei riposi giornalieri non risponde soltanto all’allattamento del neonato e altre sue esigenze biologiche, ma é finalizzata a qualsiasi forma di assistenza del bambino nel primo anno di vita. Home Nella stessa scia si pone la successiva sentenza della Corte costituzionale 2 aprile 1993, n. 179, che, riesaminando la questione in termini più generali, ha ritenuto ormai superata la concezione di una rigida distinzione dei ruoli fra i genitori nell’assistenza del bambino, dichiarando incostituzionale il menzionato art. 7, l. n. 903 del 1977 nella ulteriore parte in cui non estendeva in ogni ipotesi (e non in limitati casi) al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice, purché consenziente, il diritto ai riposi giornalieri per assistere il figlio nel suo primo anno di vita: secondo il giudice delle leggi, i due genitori nello spirito di leale collaborazione e nell’esclusivo interesse del figlio devono di volta in volta decidere quale di essi, assentandosi dal lavoro, possa meglio provvedere alla sua assistenza. Contattaci Legale Oggi Famiglia

  • Appalti: Consorzio Stabile e cumulo alla rinfusa.. binomio confermato...quali eccezioni?

    Il cumulo alla rinfusa anche dopo lo sblocca cantieri appare confermato, nelle attività super specialistiche, ad eccezione delle capacità tecniche professionali e delle attività culturali, che impongono delle limitazioni. Questa l'estrema sintesi della giurisprudenza degli ultimi due anni che qui di seguito analizziamo. Hai un quesito? Contattaci In termini generali in base al disposto dell’art. 47, comma 1 del Codice degli appalti i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui al citato art. 45, comma 2, lettera c) “devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”. Il comma 2 della medesima disposizione, nella versione attualmente vigente, prevede che i consorzi stabili “eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto (…)”, mentre, ai sensi del successivo comma 2-bis, “La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l’affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati (…)”. L’attuale formulazione del richiamato art. 47 è frutto delle modifiche introdotte dal “decreto sblocca-cantieri”. Tali modifiche hanno inciso sulla portata della previgente disposizione In altri termini è specificamente circoscritto alle procedure di “affidamento di servizi e forniture”. Torna alla Home Tanto opportunamente premesso, si è dell’avviso che la norma citata debba essere interpretata nel senso che, per gli affidamenti di servizi i consorzi stabili ritraggono dalle singole imprese consorziate i requisiti di qualificazione previsti dal bando di gara, ossia segnatamente, per quanto qui specificamente interessa, i requisiti di capacità economico/finanziaria e tecnico/professionale di cui all’art. 83, comma 1, lettere b) e c) del Codice, tramite il meccanismo del cd “cumulo alla rinfusa”, che pertanto continua a trovare applicazione. #appalto #consorzio #consorzistabili #avvalimento #cumulo In disparte le considerazioni in merito alla causa mutualistica del consorzio stabile, basato sul patto consortile, senza necessità di ricorso all’avvalimento, il comma aggiunto dallo sblocca cantieri, ovvero il 2 bis, sopra citato deve essere letto nel senso di prevedere, quale regime di qualificazione dei consorzi stabili operante nelle procedure di affidamento di servizi (e forniture), il “cumulo alla rinfusa”, avendo chiaramente accordato al consorzio la possibilità di avvalersi dei requisiti (di capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria) apportati dai singoli consorziati, da sommare ai requisiti maturati in proprio ai fini del raggiungimento delle soglie minime richieste dalla lex specialis della gara.ùQuesti ultimi avevano la facoltà di “cumulare” contemporaneamente i requisiti posseduti dalle proprie consorziate, senza che rilevasse quali di queste fossero indicate quali esecutrici della specifica commessa. In altre parole, mediante lo schema del “cumulo alla rinfusa” il Consorzio ha la facoltà di spendere requisiti ben maggiori di quelli posseduti dalle consorziate di volta in volta indicate in gara. Si tratta ovviamente di un vantaggio di non poco conto e questo sia a beneficio del consorzio sia a beneficio delle consorziate meno qualificate. In tal senso si è espresso anche il Cons. St., Sez. V, 29.03.2021, n. 2588 nella misura in cui ha affermato che “Non è poi vero quanto sostiene l’originaria ricorrente, ovvero che ai sensi dell’art. 47 del Codice dei contratti pubblici, come modificato dal c.d. decreto sblocca-cantieri (decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito dalla legge 14 giugno 2019, n. 55) si sarebbe innovato il sistema di qualificazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici dei consorzi stabili. Ciò in particolare attraverso l’aggiunta alla citata disposizione del Codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, del comma 2-bis (…) La disposizione, letta in combinato con la regola del c.d. cumulo alla rinfusa dei requisiti del consorzio stabile prevista dal medesimo art. 47, comma 1, deve ragionevolmente essere intesa nel senso che essa abbia inteso introdurre un onere di verifica dei requisiti di qualificazione da svolgere presso gli operatori economici partecipanti al consorzio stabile e che a quest’ultimo hanno apportato le loro rispettive capacità tecnico-professionali o economico-finanziarie (…)”. Tale affermazione, seppur resa in relazione ad una censura diversa rispetto a quella qui analizzata (essendo stato dedotto, in quel frangente, che la singola consorziata fosse priva del requisito di capacità tecnico-professionale richiesto dalla lex specialis e incontestabilmente posseduto dal consorzio offre una lettura “ragionevole” del menzionato comma 2-bis relativamente alla verifica dei requisiti di ordine speciale in capo alle singole consorziate e alla “sopravvivenza” normativa del regime del cumulo alla rinfusa quale regime di qualificazione dei consorzi stabili. A tale ricostruzione eravamo già arrivati nel 2021, il CdS aveva precisato che l’affidamento delle prestazioni da parte dei consorzi stabili ai propri consorziati non costituisce subappalto (art. 47, comma 2, D.Lgs. n. 50/2016) ed è inconferente il richiamo all’istituto dell’avvalimento. Al cumulo alla rinfusa nei consorzi stabili la sola deroga è posta dall’art. 146 del nuovo codice dei contratti pubblici per le qualificazioni nelle gare per lavori relativi ai beni culturali. La disposizione derogatoria è come tale di stretta interpretazione, dunque inapplicabile a lavori diversi (T.A.R. Emilia Romagna, Parma, 27.5.2021 n. 139). Consegue la legittimità della designazione da parte del consorzio […] dell’impresa consorziata […] per l’esecuzione dell’appalto, comprese le opere riconducibili a categorie super specialistiche per le quali l’esecutrice non è direttamente qualificata, ma, in applicazione del visto principio di cumulo, può fruire della qualificazione posseduta dal consorzio. L’addotta assimilabilità delle categorie super-specialistiche a quanto testualmente previsto dal codice dei contratti pubblici per i beni culturali non può dunque essere condivisa, dal momento che la disposizione derogatoria di cui al menzionato art. 146 è di stretta interpretazione e, in quanto tale, non estensibile oltre l’ambito in cui vengono in rilievo eccezionali ragioni di tutela e conservazione del patrimonio culturale. Deve tuttavia evidenziarsi un limite, difatti non si potrà utilizzare il principio descritto del cumulo alla infusa per i requisiti di capacità tecnica e professionale prescritti dalla lex specialis, ricostituendo l’originaria limitazione del “cumulo alla rinfusa”, alla sola “disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo”, i quali sono “computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”. Contattaci per ogni esigenza, Avv. Aldo Lucarelli

  • Arriva il Registro dei Titolari effettivi, la fine dell'anonimato per fondazioni e trust.

    E' un elenco consultabile di dati forniti dai rappresentanti delle imprese sulle titolarità effettive degli enti. Tutti gli iscritti al Registro delle Imprese devono comunicare i dati richiesti. Tutti i soggetti giuridici sono tenuti a comunicare il titolare effettivo. Si rivolge alle imprese dotate di personalità giuridica tenute all'iscrizione nel Registro delle imprese di cui all'articolo 2188 del codice civile. Contattaci per ogni esigenza Si rivolge quindi a tutte le società di capitali, SPA, SRL, SAPA, SCPA e SCRL oltre a fondazioni ed associazioni con personalità giuridica, e trust con effetti rilevanti ai fini fiscali. Sono escluse le società di persone, SS, Snc e SaS, dalché ne deriva un basso impatto per attività come le farmacie e similari che usano tali forme societarie. Diverso invece il caso delle SRL ove lo schermo societario potrebbe essere usato a fini elusivi. In tema di farmacie ad esempio sarà importante per la verifica del non superamento del limiti del 20% della titolarità su base regionale. A chi è concesso l'accesso alle informazioni? L'accesso alle informazioni è riservato al Mise, Direzione Antimafia e Attività Giudiziaria, autorità preposte al contrasto evasione fiscale e soggetti titolari dei compiti di adeguata verifica. Ai soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi, titolari di un interesse giuridico rilevante e differenziato, nel caso in cui la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per curare o difendere un interesse corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata. ed i Trust: Vi sono poi tuta una serie di obblighi di comunicazione in relazione ai TRUST e dei soggetti obbligati alle comunicazioni sulle generalità del titolare effettivo del trust, e questi soggetti sono: - le imprese dotate di personalità giuridica, (sopra richiamate SRL/SPA/SAPA etc) - alle persone giuridiche private - ai trust produttivi di effetti giuridici rilevanti ai fini fiscali, a cui quindi viene imposto di acquisire e conservare, per un periodo non inferiore a cinque anni, le informazioni adeguate ed accurate e aggiornate sulla propria titolarità effettiva informazioni che poi forniscono ai soggetti obbligati, in occasione degli adempimenti strumentali all'adeguata verifica della clientela. Le informazioni inerenti la titolarità effettiva sono acquisite dai rappresentanti e/ dagli amministratori sulla base di: •Scritture contabili; •Bilanci; •Libro soci; •Comunicazioni ricevute dai soci; •Comunicazioni relative all’assetto proprietario o al controllo dell’ente; •Da qualsiasi altro documento idoneo allo scopo in loro possesso La mancata «comunicazione» da parte di uno o più soci sulla titolarità effettiva comporta la temporanea sospensione del diritto di voto e l’impugnabilità delle delibere assembleari ai sensi dell’art. 2377 c.c, da cui quindi discende un controllo formale da parte del Tribunale delle imprese. Per le persone giuridiche private, tali informazioni sono acquisite dal fondatore o dai soggetti a cui è attribuita la rappresentanza o l'amministrazione, mentre per i TRUST sarà un compito dei Fiduciari o delegati. La comunicazione dei dati e delle informazioni sulla titolarità effettiva relativa alle imprese dotate di personalità giuridica ed alle persone giuridiche private nonché a trust o istituti giuridici affini come si precisa nella relazione ministeriale di accompagnamento al decreto “è effettuata rispettivamente dagli amministratori delle imprese dotate di personalità giuridica, dal fondatore, ove in vita, oppure dai soggetti cui è attribuita la rappresentanza e l'amministrazione delle persone giuridiche e dai fiduciari dei trust o di istituti giuridici affini all'ufficio del registro delle imprese della camera di Commercio territorialmente competente”. Il tutto avverrà telematicamente attraverso la procedura “Comunica”. L'accertamento è demandato alla Camera di Commercio, che potrà irrogare anche sanzioni. Si tratta di una normativa volta alla trasparenza, con chiari scopi di contrasto al riciclaggio di denaro e tesa ad evitare situazioni grigie e poco chiare di controllo. Particolarmente stringete ed innovativa per i TRUST, meno per le società che avevano già un regime di trasparenza evoluto. Si rimane in attesa del parere del Garante dei dati e della Corte dei Conti per le questioni applicative ed è facile prevedere che tale normativa andrà ad incidere in futuro sulle forme di responsabilità dei soggetti deputati ad effettuare gli adempimenti previsti, come già accade per le società quotate. #trust #srl #farmacie #società #controllo Home Studio Legale Angelini Lucarelli

  • Edilizia: Condono, Sanatoria e demolizione.

    Vediamo cosa accade in caso di presentazione di una domanda di condono o sanatoria ad un Ente che abbia avviato una procedura demolitoria amministrativa. Quali effetti per il Comune? Quali conseguenze per il procedimento amministrativo iniziato contro la demolizione? E quale è la differenza tra Sanatoria e Condono? Partiamo in ordine, quali effetti per l'ufficio tecnico del Comune? La presentazione di una istanza di sanatoria non comporta l'inefficacia del provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendoci pertanto un'automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione; Nel caso in cui venga presentata una domanda di accertamento di conformità in relazione alle medesime opere (da verificare nel caso di specie da parte degli organi comunali), l'efficacia dell'ordine di demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 16/03/2020 , n. 1848)” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4829/2020). In caso di abusi edilizi, l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato, sez. VI, n. 1552/2021). Ne consegue che, rigettato il condono, la demolizione, temporaneamente inefficace in pendenza del procedimento di sanatoria, riprende vigore Ma cosa accade in caso sia stato avviato anche il procedimento davanti al TAR? Sussiste un costante orientamento dei TAR secondo il quale la presentazione della domanda di condono successivamente alla impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere inefficace tale provvedimento, e quindi improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, perché tale orientamento – comunque revocabile in dubbio nel caso in cui il procedimento di condono si concluda con un rigetto a distanza di tempo ragionevole dalla demolizione sospesa dal condono – non può trovare applicazione nei casi in cui sia palese la mancanza dei presupposti minimi di ammissibilità della stessa domanda di condono. Torna alla Home L’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere provocato dalla domanda di condono con la riadozione dei provvedimenti repressivi ha senso solo in presenza di un intervento astrattamente sanabile, ossia quando per effetto della formazione di un nuovo provvedimento esplicito e per il suo concreto contenuto risulti definitivamente vanificata l’operatività del precedente provvedimento demolitorio, adottato senza tener conto della (astratta) condonabilità del bene. #Sanatoria, #Condono e #Demolizione e tre aspetti ben collegati tra loro. Ha pregio ricordare il principio di speditezza e non aggravamento dei procedimenti amministrativi repressivi, con una inutile riedizione ex novo di esso, atteso l’identico provvedimento repressivo da adottare in sede di rinnovo, stante la natura abusiva del manufatto e dell’impossibilità di condonarla, non rientrando per l’oggettività della sua natura nelle categorie previste dalla normativa di condono. E quindi, quale è la differenza tra Sanatoria e Condono, due termini spesso scambiati nella pratica quotidiana, ma che in realtà rappresentano concetti ben distinti. Prima di concludere precisiamo la differenza tra "condono" e "sanatoria". Il Condono è una legge speciale varate per un certo periodo che prevede la regolarizzazione sulla base di alcuni presupposti e con il pagamento di alcune sanzioni, ben delimitata nel tempo e per una specifica tipologia di abusi, mentre la Sanatoria è un provvedimento amministrativo normalmente consentito dalla normativa urbanistica vigente e previsto dalla legge 380/2001. Il Permesso di costruire in sanatoria, una volta denominato Concessione edilizia in sanatoria, è disciplinato dal Testo Unico dell’Edilizia, e si può chiedere per interventi eseguiti in assenza di permesso o in difformità da esso, ma assentibili. Requisito fondamentale della Sanatoria, e non del Condono, è che sussista la cosiddetta doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, al momento della realizzazione dell’abuso e al momento della richiesta di sanatoria. Quindi la Sanatoria è un provvedimento amministrativo ordinario previsto dalla legge, il Condono invece è una legge speciale per determinati interventi e per un determinato lasso temporale. Hai un dubbio, Contattaci Studio Legale Angelini Lucarelli

  • Farmacie, 200m , 3 km, zona, ma quale è il criterio della distanza?

    Nella istituzione di alcune attività commerciali è necessario tener presente una distanza minima, che nel caso delle farmacie urbane è il noto limite dei 200 metri. Ma come si calcola tale distanza? E' impugnabile il criterio di calcolo della distanza? E' possibile fornire una misura alternativa a quella rilevata dal Comune? Per rispondere a tali domande, utilizziamo i termini della giustizia amministrativa. Il criterio di calcolo è infatti quello imposto dall'art. 190 del codice della strada, a tenore del quale “I pedoni devono circolare sui marciapiedi, sulle banchine, sui viali e sugli altri spazi per essi predisposti” e solo quando questi “manchino, siano ingombri, interrotti o insufficienti, devono circolare sul margine della carreggiata opposto al senso di marcia dei veicoli in modo da causare il minimo intralcio possibile alla circolazione…”. Secondo la norma citata, inoltre: “I pedoni, per attraversare la carreggiata, devono servirsi degli attraversamenti pedonali, dei sottopassaggi e dei sovrapassaggi. Quando questi non esistono, o distano più di cento metri dal punto di attraversamento, i pedoni possono attraversare la carreggiata solo in senso perpendicolare, con l’attenzione necessaria ad evitare situazioni di pericolo per sé o per altri…È vietato ai pedoni attraversare diagonalmente le intersezioni; è inoltre vietato attraversare le piazze e i larghi al di fuori degli attraversamenti pedonali, qualora esistano, anche se sono a distanza superiore a quella indicata nel comma 2”. Proprio alla luce di tale disposizione, con riferimento alla misurazione della distanza (tra due punti vendita o per il rilascio di licenze concessioni per le quali è prevista una distanza minima) si è ritenuto che la distanza vada calcolata sulla base del percorso pedonale minimo determinato con il rispetto delle norme del codice della strada, compreso il comma 2 dell’art. 190, “tenendo conto degli attraversamenti stradali consentiti e, in genere, delle norme del codice della strada”. Ne discende che non è possibile per la recente giurisprudenza amministrativa, effettuare la misurazione basandosi sulla trasgressione, o su opzioni alternative non supportate da regolarità, seppure non necessariamente pericolose. Ad esempio non è stata ritenuta idonea una misurazione che prevede attraversamenti non consenti, oppure comportamenti non conformi da parte del pedone delle norme del codice della strada per addivenire ad un accorciamento del percorso, ad esempio tagliare su giardini pubblici, attraversare ove non è consentito. E’ evidente, infatti, che l’approccio metodologico indicato non solo non è conforme al concetto di “percorso pedonale più breve” precisato dalla giurisprudenza, ma si presta ad applicazioni difformi caso per caso che mal si conciliano con la natura di una regola tecnica. per i Tar l’art. 1 della legge n. 475/68 dispone che “la distanza è misurata per la via pedonale più breve tra soglia e soglia delle farmacie” e quindi “per percorso pedonale più breve deve farsi riferimento al percorso effettivamente percorribile a piedi da una persona normalmente deambulante in condizioni di sicurezza e senza esporsi a rischi”. Tale regola si applica in caso di trasferimento della farmacia all'interno della stessa zona di competenza, ambito di cui ci siamo già occupati in altro post. (clicca qui). Oltre a tale regola, per le farmacie sussiste poi la norma dei 3 km prevista per sedi operanti anche in diversi comuni, ed in occasione di una nuova istituzione. E' solo il caso di precisare che tale norma si applica a comuni sino a 12.500 abitanti e che per il Consiglio di Stato si applica sia alle farmacie rurali che alle urbane, essendo tale principio (art. 104 TULS) un criterio alternativo a quello demografico e che ai fini del riassorbimento questa distinzione non ha alcuna base nelle fonti normative. Le due espressioni “criterio demografico” e “criterio della distanza”) sono equivalenti ed indicano entrambe il criterio stabilito dall’art. 104, cit., quale alternativo a quello demografico. Consiglio di Stato 2851/2014. Prima di concludere una precisazione, è impugnabile il criterio utilizzato ed il calcolo effettuato, a condizione di offrire una alternativa valida e legale, senza utilizzare stratagemmi contrari al codice della strada o irrazionali. Hai un tema che ti interessa? Contattaci. Leggi i Post del canale Farmacia Avv. Aldo Lucarelli. (cfr. Cons. Stato, III, 6.8.2018, n. 4832; T.A.R. Lazio, Latina, 6.4.2017 n. 229, e conforme TAR Toscana Sez. II sentenza n. 167 del 10 luglio 2019)

  • Edilizia ed Appalti, chi paga la sanzione dell'appalto?

    Un tema molto caldo riguarda il pagamento delle sanzioni, a volte molto severe, derivanti da appalti e non presenti espressamente nella contrattazione. Si tratta di sanzioni derivanti da regolamenti amministrativi o atti collegati e connessi alla contrattazione principale, che per comprenderci, è quella che è stata espressamente sottoscritta dalle parti. Il principio base della contrattazione pubblica è la prova scritta, pertanto verrebbe da pensare che ogni cosa che non sia espressamente prevista non potrà essere applicata. Tale principio tassativo è però piu' consono ai dettati della contrattazione anglosassone, in quanto nel nostro sistema il codice prevede una serie di meccanismi e di integrazione ad applicazione oserei dire "automatica", dal quale però non dovrebbero derivare obbligazioni impreviste, Ma è proprio così? Ed allora vediamo con ordine, La forma dei contratti in cui sia parte la pubblica amministrazione è dettata dagli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440 del 1923 ed è “scritta”, ma attenzione alle forme contrattuali per relazione ovvero collegate ad uno scambio di dichiarazioni non contenute in unico documento. E' affermazione incontrastata del diritto vivente quella per cui le norme poste dagli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440 del 1923 impongono la forma scritta per i contratti stipulati dallo Stato e dalle sue amministrazioni. La forma scritta, posta quale requisiti di validità assume carattere di garanzie ed è volta a concretizzare gli accordi, ed a fornire la prova della estensione degli obblighi tra le parti, cosicché nulla di quello che non è compreso potrà essere richiesto al contraente debole, ovvero a colui, impresa o ausiliario che è soggetto al potere disciplinare e di controllo della Pubblica Amministrazione. Fin qui tutto bene, o quasi, la questione diviene piu' complessa ove gli obblighi vengano imposti dall'alto, o ancor peggio possano sorgere sanzioni e/o penali derivanti da atti richiamati nella contrattazione ma non deliberativamente assunti. E' possibile quindi ritenere sufficiente un forma scritta che risulti da comportamenti come lo scambio di dichiarazioni? Prima di rispondere a tale quesito è importante ricordare che ai sensi dell'art. 1326 del codice civile l'accordo contrattuale si forma con l'incontro della proposta e dell'accettazione, ed è quindi in tale “dialogo” tra le parti che andrà ricondotto l'argomento. La Cassazione già nel 1967 affermo che: l’esigenza della forma scritta per i contratti con gli enti pubblici “non esclude che il complesso obbligatorio che astringe la pubblica amministrazione al privato possa risultare da un insieme di dichiarazioni scritte oggetto di scambio tra i contraenti, dichiarazioni che nella fase normativa del contratto si atteggiano come proposta e come accettazione tra assenti, così come avviene nella sfera della negoziazione comune” E’ un filone giurisprudenziale che ha trovato ulteriore e significativa conferma anche più di recente, essendosi ribadito, chiaramente, che il “requisito della forma scritta, richiesta ad substantiam per la stipulazione dei contratti della P.A., nei contratti conclusi con la modalità della trattativa privata, non richiede necessariamente la redazione dell’atto su di un unico documento sottoscritto da entrambe le parti, ma può essere soddisfatto anche mediante lo scambio delle missive recanti, rispettivamente, la proposta e l’accettazione, entrambe sottoscritte ed inscindibilmente collegate, in modo da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo, perché questa modalità di stipulazione del contratto, generalmente ammessa dall’ordinamento, non è esclusa per tali contratti dalla formula di cui all’art. 17 del r.d. n. 2440 del 1923”. Sei interessato? Consulta l'archivio gratuito L’indirizzo trae linfa, evidentemente, dal principio, più generale e di risalente enunciazione per cui, alla stregua delle regole generali sulla formazione dell’accordo tra le parti contrattuali (art. 1326 c.c.), “nei contratti a forma vincolata non occorre che la volontà negoziale sia manifestata da entrambi i contraenti contestualmente e contemporaneamente, per modo che il requisito della forma scritta ad substantiam, in caso di sottoscrizioni contenute in due documenti diversi, deve intendersi osservato anche quando la seconda sottoscrizione sia espressa in un documento separato, se questo sia inscindibilmente collegato al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente l’incontro dei consensi nelle suddette forme” HOME Ecco quindi che oggi soprattutto in tema di concessioni temporanee, e di rapporti con la P.A. la presenza di rapporti di diritto pubblico, come autorizzazione e/o concessioni per l'espletamento dei lavori, darà luogo all'insorgere di obblighi “ulteriori” e cio' mediante il meccanismo della convenzione accessiva. (C.Sez. Un. 9775/22 e CdS 3602/18 e art. 7 L. 241/1990). Per specifiche esigenze, contattaci Studio Legale Angel ini Lucarelli Avv. Aldo Lucarelli

  • Diritto dei Contratt: Più titolari, ma una sola azione legale, con il presunto consenso dell'altro!

    Siamo due comproprietari, posso agire da solo per la tutela di un diritto? Per rispondere a tale frequente domanda usiamo un escamotage... é possibile pensare che in assenza di prova contraria l'altra parte sia concorde? La risposta é affermativa infatti in assenza di consenso espresso, ed in caso si comproprietá, si presume che chi agisce da solo operi con il consenso dell'altra parte. Tale principio potrà essere utilizzato in molteplici ambiti, dall'impresa al condominio, essendo un principio generale applicabile anche nel caso limite in cui vi sia un incapace. Doppia titolarita anche nella locazione? Si anche in tali casi opera suddetto principio... Home Ed infatti i comproprietari di un bene concesso in locazione hanno pari poteri gestori sulla cosa comune ed ognuno di essi è legittimato ad agire per il rilascio, in base alla presunzione che ciascuno operi con il consenso degli altri, la quale non è esclusa dal fatto che uno di loro sia incapace di intendere e di volere, poiché tale presunzione prescinde da un'indagine sullo stato soggettivo degli ulteriori comproprietari e va intesa - in senso oggettivo - quale mancanza di dissenso da parte degli stessi. Hai un quesito? Contattaci Studio Legale Angelini Lucarelli

  • Azienda ed Impresa, dalla cessione del ramo alla limitazione alla responsabilità tributaria.

    In caso di cessione di ramo d'azienda, si puo' applicare la limitazione di responsabilità prevista dalla normativa civilista anche ai debiti tributari? Si, a condizione che l'acquirente provi l'autonomia del ramo d'azienda e l'inerenza dei tributi tramite il certificato previsto dall'art. 14 delDPR 472 del 1997. A tali condizioni quindi è ravvisabile la tutela della limitazione prevista per la cessione del ramo d'azienda. Questo è in sintesi il pensiero posto alla base di recente giurisprudenza sul tema. Ed infatti In tema di responsabilità del cessionario del ramo di azienda per i debiti del cedente, il principio della inerenza del debito, desumibile dall’art 2560 c.c. deve ritenersi applicabile anche ai debiti tributari, ma a determinate condizioni, di cui meglio si dirà, al fine di rispettare le finalità anti elusive proprie dell'art. 14 del D.lgs. 472 del 1997, e ciò per molteplici ragioni. Nell'interpretare l'articolo 2560 c.c. la Corte di Cassazione ha già ritenuto che in caso di cessione di ramo d'azienda, l'acquirente, pur in presenza di una contabilità unitaria, risponde, a norma dell’art. 2560 cod. civ., dei debiti pregressi risultanti dai libri contabili obbligatori, a condizione, però, che siano inerenti alla gestione del ramo d'azienda ceduto (Cass. n. 13319 del 30/06/2015). Deve poi sottolinearsi la diversità tra la cessione di azienda, il trasferimento frazionato di beni appartenenti ad un unico complesso aziendale e la cessione di un ramo di azienda avente una sua effettiva autonomia funzionale. Costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto(Cass. n. 28593 dell’8/11/2018;). Se pertanto il ramo di azienda è dotato di una specifica autonomia, tale autonomia deve connotare necessariamente anche debiti, compresi i debiti tributari, diversamente si verificherebbero effetti paradossali, chiamando il l'acquirente del ramo a rispondere di debiti che afferiscono esclusivamente all'attività che continua ad essere svolta nel ramo di azienda principale. A questa condizione può affermarsi che la responsabilità del cessionario/acquirente del ramo di azienda deve fondarsi, anche per i debiti tributari, sull'inerenza del debito al compendio acquistato, sicché essa non opera per quelle obbligazioni pecuniarie che siano riconducibili ad altro ramo aziendale rimasto di proprietà del cedente. Da ciò discende, quale necessario corollario, che è onere del cessionario dimostrare non solo l’effettiva preesistente autonomia del ramo aziendale acquistato ma anche la non inerenza del debito tributario a detto ramo aziendale, e che la prova non può darsi tramite presunzioni, quali il ricorso agli studi di settore, bensì con modalità idonee ad escludere che nella concreta fattispecie sia stata vanificata la finalità anti elusiva dell'articolo 14 del D.lgs. 472/1997, vale a dire tramite l'esibizione del certificato di cui al comma terzo dell'art. 14 e della contabilità aziendale Hai un quesito? Contattaci Studio Legale Angelini Lucarelli Avezzano

  • Società controllata ed accesso ai documenti, profili pratici.

    Sono titolare di una quota di società a responsabilità limitata, la quale a sua volta è titolare di una quota di altra società, posso accere ai documenti di questa seconda società? La risposta è si, ma non per la mia posizione di socio della prima società, bensì quale componente della seconda società, ed ho accesso quindi nella veste di socioche non partecipa all'amministrazione. Infatti nessuna norma prevede che il socio di una società che ne controlli un’altra, o che eserciti su questa l’attività di direzione e di coordinamento, possa per il solo fatto del rapporto di controllo o direzione/coordinamento, accedere anche alla documentazione della controllata o diretta/coordinata. Non vi è quindi una norma diretta che ammetta tale diritto, in quanto l’accesso alla documentazione previsto per le s.r.l. ha carattere tipico, e attiene alla documentazione amministrativa e sociale della s.r.l.. Ma poiché il diritto di accesso ha ad oggetto quanto attiene alla amministrazione della società, quindi non solo in relazione al rapporto sociale tra le due società, bensì in relazione ai doveri degli amministratori, i quali quindi nell'essere responsabili dell'amministrazione della società, sono anche tenuti a dare informazione sulla gestione ai soci che non amministrino. Tale informazione avrà un ruolo essenziale per i soci della società controllante, anche ai fini del controllo e della verifica di posizioni conflittuali o di incompatibilità in relazione all'attività prestata. Immaginiamo infatti che la società controllante svolta una attività come un'attività medica, o clinica, potenzialmente incompatibile con quella della società controllata quale ad esempio una farmacia sotto forma di SRL, ed i soci della prima non riescano ad avere accesso ai documenti della seconda società, potenzialmente in conflitto di interesse o soggetta a norme in tema di incompatibilità, come ad esempio quelle dettate per le SRL di farmacia dalla legge 362 del 1991. L'accesso alla documentazione avrà un ruolo preponderante nella gestione dei rapporti. Ecco quindi che nell'alveo di questo diritto di accesso derivato, ricadente sulla società, rientra anche l'accesso a quella documentazione attinente alla società controllata, oppure attinente ai rapporti fra le due società o che sia nella sua disponibilità: deve presumersi, che tale documentazione sia essenziale alla gestione dei rapporti della prima con la seconda società, e quindi rientri nell'alveo dei doveri degli amministratori della controllata, fornirla ai soci della controllante. Questa documentazione può fra l’altro fare comprendere al socio della controllante se questa effettivamente anche diriga/coordini la controllata, e come lo faccia. Il fulcro del discorso quindi è contenuto nella previsione di legge che prevede: "I soci che non partecipano all'amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione." (art. 2476 co. 2, cc). Conclusione: "il diritto di accesso per i soci non amministratori è presente ma per la società controllante deriva di riflesso dal dovere di informazione a cui sono tenuti gli amministratori della società controllata." Sei interessato all'argomento? Seguici sui Social Poni il tuo quesito Studio Legale Angel ini Lucarelli Avv. Aldo Lucarelli

  • Edilizia: Il vincolo paesaggistico ed il titolo edilizio...

    l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio. Quale é il rapporto tra Assenso Paesaggistico e Permesso di Costruire? Il titolo edilizio ed il vincolo paesaggistico, due strade autonome con una stessa direzione. Vediamo come si incontrano senza scontrarsi, nel senso che la presenza di una delle due non è sufficiente per l'altra! I due atti di assenso, quello paesaggistico e quello edilizio, operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi, seppur parzialmente coincidenti. Ne deriva che il parametro di riferimento per la valutazione dell’aspetto paesaggistico non coincide con la disciplina urbanistico edilizia. Sussiste quindi una specifica disciplina dettata per il vincolo paesaggistico secondo cui il parametro paesaggistico non coincide con la disciplina urbanistico edilizia, E quindi “la valutazione di compatibilità paesaggistica è connaturata all’esistenza del vincolo paesaggistico ed è autonoma dalla pianificazione edilizia.. Ne deriva che nella ipotesi in cui siano stati rilasciati i titoli edilizi, pur in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, non può in alcun modo legittimare anche sotto il profilo paesaggistico il fabbricato. Tale esito si porrebbe in contrasto con il principio espresso dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. 196/2004), secondo la quale l’interesse paesaggistico deve sempre essere valutato espressamente anche nell’ambito del bilanciamento con altri interessi pubblici, nonché con la giurisprudenza che, nelle materie che coinvolgono interessi sensibili, quale quello paesaggistico, limita l’istituto del silenzio assenso solo al ricorrere di previsioni normative specifiche e nel rispetto di tutti i vincoli ordinamentali (Cons. St. n. 6591/2008). Risulta in sintonia con quanto appena ricordato il dato per cui esiste un principio di autonomia anche tra l’illecito urbanistico-edilizio e l’illecito paesaggistico, come anche un’autonomia tra i correlati procedimenti e regimi sanzionatori (Cons. St. 2150/2013). Il Vincolo Paesaggistico ed il Titolo Edilizio sono quindi due aspetti autonomi seppur coincidenti per l'interesse del privato che non potrà subordinare l'uno all'altro né sottovalutare la sussistenza di entrambi. In caso di procedura amministrativa quindi sarà necessario verificare la sussistenza di entrambi prima di poter avviare i lavori edili. Il Tar sarà l'ultimo rimedio ove uno dei due venga a mancare per errori di istruttoria e/o di valutazione da parte delle amministrazioni coinvolte. Attenzione però a non dare per scontato il rilascio del nulla osta paesaggistico ove il titolo edile sia regolare! Seguici On Line O consultaci per un Tuo caso. Studio Legale Angelini Lucarelli Diritto Amministrativo.

  • Assicurazione sul finanziamento, ma a vantaggio di chi?

    I finanziamento oggi sono sempre piu' spesso collegati ad assicurazioni volte a coprire il rischio che il titolare del finanziamento - debitore - non sia piu' in grado di pagare le rate, ad esempio del mutuo, del leasing, del factoring o altri generi di finanziamenti... ma siamo sicuri che siano nell'interesse del debitore? Non sempre.. Ecco quindi che le Banche o le finanziarie richiedano accanto alla stipula del finanziamento, la copertura assicurativa, volta per l'appunto a coprire "il rischio inadempimento" a causa di eventi che possono colpire il debitore. Vi sono diversi eventi coperti dall'assicurazione, dal caso vita - morte - alla perdita temporanea del lavoro, alla perdita della capacità lavorativa totale... Il quesito che ci è stato prospettato è il seguente.. Se, stipulo un mutuo/finanziamento con annessa l'assicurazione per il caso di perdita del lavoro, dovrò pagare il debito? Per rispondere alla domanda partiamo dalla disciplina del contratto di mutuo, che consente a chi lo stipula di ricevere somme, e per chi lo eroga, di ottenere come corrispettivo degli interessi. Il mutuo è spesso collegato ad una garanzia come l'ipoteca. Ecco quindi che in caso in cui non vi sia l'ipoteca, con la quale la Banca si garantisce del rischio insolvenza, viene stipulata la polizza assicurativa, con cui il debitore, dietro il pagamento del premio, garantisce comunque la restituzione del capitale... ma siamo sicuri che detta polizza sia stipulata a favore del debitore? Ove vi sia l'ipoteca, la Banca è già garantita per il capitale prestato, ma ciò esporrà il bene, ad esempio casa, alla espropriazione, ove non venga pagato il capitale. Ecco quindi che l'assicurazione copre il rischio di perdere l'immobile ove a causa di un evento, come la perdita del lavoro non si riesca a far fronte alle rate mancanti.. E quindi veniamo alla risposta. Nel caso in cui accanto al mutuo/finanziamento, venga stipulata una polizza assicurativa in favore dell'ente finanziatore, ove il debitore perda il lavoro, l'assicurazione pagherà all'ente finanziatore il debito residuo... ma attenzione alle successive conseguenze.. Va infatti evidenziato che spesso le polizze assicurative prevedono il diritto di surroga, ovvero il meccanismo con il quale una volta corrisposta la somma assicurata all'ente finanziatore, l'assicurazione si riverserà sul debitore per la surroga e quindi per il recupero della somma. Questo è il caso dell'assicurazione volta a garantire la somma, contratta a favore dell'ente finanziatore. Tutto dipenderà dalle clausole del contratto, e dei collegamenti che queste clausole assicurative avranno con il finanziamento posto alla base, attenzione quindi alle postille che si firmano, le quali potranno essere poste anche nell'interesse della Banca/finanziaria e non del debitore principale. Recenti casi hanno visto affermarsi la validità di clausole assicurative nell'interesse della Banca/Ente e che prevedono quindi il diritto di surroga/sostituzione della compagnia assicuratrice nei confronti del debitore in caso di inadempimento di quest'ultimo, in relazione all'indennizzo pagato alla Banca per l'avveramento del rischio perdita del lavoro da parte del soggetto finanziato. In tali contesti quindi anche se vi è l'assicurazione, questa opererà per tutelare la Banca, e quindi l'assicurazione una volta pagato il capitale alla Banca, richiederà la somma al debitore.. hai un quesito? Leggi i nostri articoli nel blog gratuito o contattaci Studio Legale Angelini Lucarelli

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gli articoli del blog non costituiscono consulenza sono casi di scuola ad uso studio di carattere generale e non prescindono dalla necessità di un parere specifico su caso concreto.

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